Introduzione alla mostra - Umberto Baldini

Umberto_BaldiniLa presente mostra — al di là di quelli che possono essere stati gli stimoli propagandistici con i quali si è inteso sollecitare mediante i normali mezzi a disposizione quel concorso di pubblico che crediamo utile e indispensabile a simili manifestazioni — vorremmo che fosse guardata da tutti così come è sorta, in piena umiltà. Vorremmo cioè che ad essa non venisse legato, neppure come intenzione lontana, alcun potere taumaturgico o tantomeno cattedratico. Non siamo qui per insegnare quanto per imparare. Che se la mostra ha l'ampiezza che ha ed è in grado di presentare una casistica di restauri a così vasto raggio (al punto da divenire la più estesa rassegna che mai si sia fatta nel campo specifico), ciò non è certo dovuto a nostro merito bensì al fatto che dovendo documentare, sia pure per sommi capi e per tematiche, i nostri quarantenni di lavoro, si va di necessità a toccare una storia che coi suoi capitoli altamente drammatici ha costretto il Laboratorio ad una operosità estremamente intensa.

Quarantenni di lavoro, del resto, sono molti per tutti e più lo sono dunque per un laboratorio che, oltre che ai normali, ma non per questo meno importanti, impegni nella cura dei danni provocati dal tempo, in tre province che certo sono tra le più ricche di opere d'arte di tutta Italia, ha dovuto far fronte anche ai danni inconsulti di una guerra che ha non poco infierito sul suo territorio, e ai danni, ancor più gravi e inattesi, di un'alluvione disastrosissima. E questi quarantenni si vogliono narrare, in questa rassegna, cercando di cogliere dal contesto di così intensa operosità quei motivi che, al di là di una mera cronaca da consuntivo, possano servire a fare una storia di problemi, di impostazioni, di tecnica come di teoria. Una storia che vorremmo fosse di insegnamento anche e soprattutto per noi e per i più giovani di noi, proprio nel momento stesso in cui, come al caminetto, ne abbiamo rimesse insieme le fila: perche ogni esperienza anche negativa del passato possa diventare positiva se saprà guidarci o indirizzarci a percorrere ancora nel modo migliore la tanto difficile e aspra strada del restauro.

Una strada che giorno via giorno diventa più ardua anche perché all'accentuato deperimento dell'oggetto d'arte non ha ancora corrisposto, nonostante le mille e mille promesse, intervento alcuno atto a modificare in senso positivo le inconcepibili strutture esistenti nel settore. E, si badi bene, non è questione di solo denaro. Tutt'altro: perché se è vero (e la mostra persin troppo bene lo documenta) che venti o venticinque anni fa le opere andavano in rovina per mancanza di denaro a disposizione, oggi (non essendosi nel frattempo provveduto a nessun adeguamento ordinato di mezzi e uomini) si rischia di vedere, per assurdo, andare in rovina le opere d'arte, in frettolosi e non ortodossi interventi, perché ci sono soldi che debbono essere spesi entro quell'esercizio, pena la perdita. Ma chi ci perde, in questo caso, è purtroppo la conservazione dell'opera d'arte. Fare delle concessioni tolleranti in questo settore, abbandonarlo quasi all'arrangiamento, è non solo ingiustificabile ma addirittura delittuoso.

Occorre impostare con serietà le risoluzioni ai gravi problemi, così come ai problemi più semplici. Ma occorre soprattutto in chi opera come in chi guida e dirige i lavori una preparazione tecnica seria e specifica, una preparazione che purtroppo non si fa, salvo rarissimi e sporadici casi, né a livello universitario (per chi domani sarà chiamato a dirigere) né a semplice livello di scuola (per chi domani sarà chiamato a operare). L'impegno o l'impiego di chi dirige un laboratorio o un restauro è dato, oggi come oggi, solo dall'occasione o da una scelta d'ufficio; così come alla sola discrezione di un funzionario (che non sempre è tecnicamente preparato) è affidata la scelta dell'operatore. E poiché crediamo (e si sfida chiunque a sostenere il contrario) che solo con una lunga consuetudine con i problemi di restauro e con una conoscenza diretta di lavoro si acquista un'esperienza che non si improvvisa, va da sé che si possono almeno esprimere dei dubbi sul fatto che chiunque (purché investito ' ab alto ') possa portare avanti o guidare un certo lavoro. È tempo ormai, insomma, che il ' restauro ' con tutto quello che porta con sé sul piano storico ed estetico venga considerato una branca, una professione ad alto livello operativo, specialistica in ogni senso, al punto di doversi da essa pretendere, uniformandone le strutture, tutte quelle garanzie che in altri settori si richiedono. Va bandito il sottobosco del restauro, va formata una coscienza di lavoro con una coscienza di responsabilità ad ogni livello.

Oggi come oggi non mancano certo in Italia laboratori validamente impegnati e bene organizzati; laboratori che ci vengono magari anche invidiati; ma di contro ad essi vi sono troppe zone dove non solo non esiste alcun laboratorio, ma dove si finisce con l'affidare il lavoro a persone che non sanno neppure cosa è il restauro nell'accezione moderna e operano con metodi tecnici ed estetici che forse non si usavano neppure cent'anni fa. Con quale vantaggio per l'opera d'arte, si può ben comprendere.

Occorre allora al più presto fare in modo che vengano potenziati almeno quei centri che già esistono perché possano — anziché restare chiusi nell'ambito ristretto di una giurisdizione provinciale della Soprintendenza cui ora si legano — divenire centri propulsori e promotori di un'espansione territoriale operativa con la quale si giunga alfine a coprire, al più presto possibile, l'intero territorio nazionale.

Occorrerebbe insomma, secondo noi, proprio in ragione di quella ' specializzazione ' che è insita nell'attività sia del personale tecnico-operativo che del personale dirigente, dare l'autonomia a quegli organismi esistenti che già la possono ottenere per qualità di lavoro, numero di operatori, disponibilità di apparecchiature. Un'autonomia che non significhi però isolamento bensì riordinamento in una struttura più specificamente specialistica. In via transitoria si dovrebbero configurare fin da ora come centri base di questo riordino, oltre che Roma dove il centro esiste, quelle sedi già anch'esse validamente operanti e da individuare di comune accordo con gli attuali responsabili di ogni Soprintendenza. E questi centri, sempre in via provvisoria, dovrebbero subito ottenere una giurisdizione (e ciò in funzione delle loro possibilità operative) più ampia del territorio ove attualmente funzionano, in modo da dare l'avvio immediato a una revisione — che non può essere più oltre procrastinata — di quanto esiste e di come si opera nei vari organismi periferici. In modo da creare i presupposti di un pratico e non solo teorico indirizzo comune di lavoro (e le direzioni già esistenti dovrebbero immediatamente riunirsi, per concordare linee di lavoro e azione promozionale con l'Istituto Centrale del Restauro ' primus inter pares ', e in funzione anche di distributore di indirizzi di ricerca ai vari laboratori e di provveditore di scambi di lavoro a seconda delle esigenze e delle specializzazioni) e intervenire in modo deciso verso una conduzione che sia almeno garantita su una rassicurante base unitaria tecnico-scientifica. A questi centri — che potrebbero domani divenire uno ogni regione secondo quella che dovrebbe essere l'ideale configurazione nazionale — verrebbe ad essere demandata la conservazione del territorio nella più vasta e impegnativa delle accezioni. Investiti della ' responsabilità operativa ' (cioè su piano tecnico) essi potrebbero nel migliore dei modi rispondere, anno per anno, alle esigenze di lavoro e ai piani concordati in una conferenza regionale tra i vari responsabili degli uffici periferici (Soprintendenze e Istituti autonomi, ognuno dei quali dovrebbe avere piccoli laboratori di ' primo intervento '); ogni oggetto d'arte in restauro dovrebbe essere seguito, nel suo iter di lavoro, dall'Ente periferico che ne è custode responsabile, affiancando così l'azione della dirczione tecnica del laboratorio cui spetterebbe di eseguire il lavoro dopo che siano state insieme indicate le esigenze e dopo che siano stati messi a punto i mezzi tecnici necessari per le varie operazioni. E più sarà necessario dare immediatamente l'avvio — laddove vi sono i presupposti (da studiare e individuale in un colloquio diretto tra gli organismi attualmente esistenti) — alla istituzione di scuole di restauro atte a preparare i restauratori dell'immediato domani. Poiché va da sé che sarebbe inutile moltiplicare d'un colpo i centri di lavoro, creare cioè laboratori nuovi e comprare apparecchiature, spendere pubblico danaro in imprese frammentarie e senza un criterio preciso, quando non ci sono a disposizione, preparati in modo adeguato, i tecnici, cioè i restauratori, che non si possono certo fabbricare dall'oggi al domani. E siano vere scuole, come quella dell'Istituto Centrale di Restauro presso il quale potrebbe concludersi come in un vero e proprio perfezionamento l'ultimo anno delle scuole periferiche che dovrebbero almeno svilupparsi in tre anni di esperienza; scuole che vivano entro i centri stessi di lavoro e non già scuole lontane da essi o affidate con leggerezza a improvvisati o sprovveduti insegnanti, magari autodidatti e formatisi su certi testi che (sembra incredibile!) circolano e sono autorizzati.

Si devono formare dei ' tecnici ' veri e propri, non già dei pur bravi ' artigiani '; non ci si può più affidare al solito e ormai vecchio ' stellone ' o all'antica genealogia dei ' maghi ' e dei vari Dulcamara che tengono ancora con l'animo sospeso gli ingenui affidando il loro ammirato ' sapere ' a segreti trasmessi da chissà quale discendenza. Lo Stato ha un patrimonio che ha il dovere di curare e preservare per sé e per tutti: è suo dovere anche, però, esigere che lo curino e lo custodiscano persone che esso stesso, attraverso le sue strutture, ha formato e preparato. Non ci si può più affidare all'atto creativo e individuale del genio italiano isolato, del ' restauratore' principe. La mostra proprio nella varietà delle presenze vuoi essere testimone anche di questo. Desidera soprattutto far sentire la realtà importante di un lavoro fatto insieme, in diuturno e continuativo impegno, dove tutti hanno potuto portare un contributo, dove si è discusso e si discute, dove si è operato e si opera senza segreti, alla piena luce del giorno, senza sotterfugi o infingimenti di sorta, senza chiudersi in roccaforti dorate.

E non si creda ad essa come a un mezzo messo in campo al solo scopo di riscuotere un facile successo. Non desideriamo questo; desideriamo che attraverso di essa si manifesti, nell'amore almeno di una conduzione, tutta la difficile realtà di un lavoro che oggi come non mai ha bisogno della collaborazione di tante forze operative le più varie; di un lavoro che ha urgente bisogno, si è visto, di essere avviato entro organismi e strutture create ad hoc e non già desùnte o assimilate, come lo sono da più di cent'anni ormai, sul metro di altre branche dell'amministrazione dello stato. Crediamo di avere diritto di esigerla, questa riforma, anche per quanto in quarantenni è stato tenacemente avviato e voluto da uomini come Ugo Procacci che l'intera sua vita dedicò alla difesa del patrimonio artistico fiorentino. Ed è proprio a lui, che il Laboratorio fondò e poi diresse per tanti anni, che la mostra rivolge un omaggio e un ringraziamento, nella convinzione che l'insegnamento da lui ricevuto sul piano tecnico, sul piano della ricerca, sul piano estetico, come sul piano umano e morale, sia qualificata mallevadoria al nostro attuale operare. Perché fu proprio il suo insegnamento quello che permise al Laboratorio, sin dai primi momenti della sua attività, di superare gli schemi e i metodi del passato e di costituirsi su una base di ricerca anche scientifica, di contro all'empirismo che quarantenni fa dominava il campo del restauro. E fu il suo insegnamento a rendere il Laboratorio una palestra aperta per tutti, una palestra dove si discuteva, si operava e si studiava. E dove soprattutto si sentiva pulsare la sua grande carica vitale, il suo entusiasmo e la sua passione, e quel suo amore che sono stati da noi tutti (dietro di lui, già pronti a ricevere la più bella delle sue eredità) messi in campo nei giorni dell'alluvione.

Quella carica, quell'entusiasmo, quella passione e quell'amore che temprati in un'esperienza quarantennale ci danno fiducia e forza per continuare, sullo stesso ritmo del primo giorno, la nostra strada. Che è strada di tutti e aperta a tutti, nel segno di quella cooperazione di forze che proprio Procacci ha tante volte invocato. Solo chi non ha mai messo piede nei nostri laboratori può pensare diversamente. Ma chi c'è stato — e in totale piena libertà di giudizio sulla conduzione del lavoro — sa bene come la pensiamo.

Possono esserne testimoni i partecipanti italiani e stranieri nel 1969 al Convegno sul restauro che ebbe luogo a Pistoia sotto la presidenza di Mario Salmi; e più ancora possono esserne testimoni quei restauratori (ai quali tutti va il nostro più affettuoso e leale ringraziamento) americani, russi, tedeschi, inglesi, norvegesi, danesi, syedesi, finlandesi, francesi, ungheresi, iugoslavi, austriaci, romeni, greci, polacchi, cecoslovacchi, sudafricani, portoghesi, svizzeri, australiani, spagnoli, olandesi, belgi, che dal 1967 ci hanno a più riprese affiancato. Non per ricevere lezione o per portare lezione, ma per stare insieme, per lavorare insieme, per aggiornarsi insieme, per scoprire insieme realtà nuove su un materiale che anche proprio in rapporto al danno ricevuto è stato ed è un eccezionale e irripetibile banco di studio e di problematiche, che nessun altro laboratorio o testo scritto può mai avere messo in campo.

La Fortezza da Basso, prima sconosciuta ai più, è diventata per questo incontro nota al mondo intero. Il mondo della cultura vi vide e vi continua a vedere il frutto forse più bello di una collaborazione senza barriere; e non solo perché al suo allestimento concorsero — con apparecchiature di altissimo valore e prezzo e con materiali — quasi tutte le nazioni europee e molte extraeuropee (per una cifra di valori complessivi che sfiorano il mezzo miliardo di lire). Una collaborazione che, mossa come aiuto per la riparazione dei danni dell'alluvione, può diventare domani (e si ricordano a questo proposito i voti che furono espressi dall' UNESCO e da altri organismi internazionali) una palestra d'eccezionale interesse per gli studi del restauro e della conservazione delle opere d'arte, da non abbandonare. Ne fa fede l'esperienza positiva della Meisterschule fur Konservierung und Technologie dell'Accademia di Belle Arti di Vienna che nel 1968 per due mesi trasferì studenti e insegnanti nei nostri laboratori, proseguendo poi la collaborazione diretta con altri allievi. E tutto questo rammentiamo e diciamo non certo per ammantarci di penne di pavone ma perché proprio oggi, superati ormai i dati dell'emergenza alluvionale, vengono alla ribalta nella comune nostra normale conduzione, in forma macroscopica, quei problemi di struttura e di lavoro che, se non sono risolti, rischiano di fare crollare, così, tutto d'un colpo, quanto in quarantenni di lavoro è stato fatto.

I problemi sono complessi e non certo risolvibili in poche righe di nostro scritto; ma se non si affrontano oggi, subito, essi aumenteranno sempre più fino a divenire veramente insolubili ad ogni livello. I nostri organi superiori conoscono bene le enormi difficoltà in cui ci si dibatte: è a loro che rivolgiamo anche da questa nostra rassegna, una volta di più, il nostro drammatico appello. Domani, potrebbe essere troppo tardi. E non ci si risponda, annoiati da tanto nostro insistere, come nelle Testimonianze di Gaspero Barbera, « per quattr' quadrass ch'a l'han a fan un bourdel da forca ». Si ricordi — e questo la mostra vuoi far comprendere, in ultima analisi, a tutti i suoi visitatori — che quei « quattr' quadrass » non sono certo solo l'oggetto di una dolce follia edonistica di alcuni poveri maniaci ' passionisti ', ma sono la testimonianza più alta della nostra civiltà: non già stantìa e vecchia ma fresca e giovane, vitalissima perché sempre rinnovantesi nel nostro quotidiano vivere con essa.